ospitata l’1 Febbraio al Teatro Palladium con Sista
- Il titolo della stagione è Vertigine. Cos’è per te una vertigine o vertiginoso?
Il corpo è vertigine. Il mistero delle sue mutazioni, la capacità di adattamento e riconfigurazione anatomica, sensoriale, percettiva. Vertiginosa è l’esperienza della corporeità, con la ferocia e la fragilità delle sue manifestazioni. Ma da osservare un po’ appartati dalla necessità della comprensione, dalle logiche di senso che affezionano il pensiero. Osservare il corpo che agisce, inventa e interroga, senza cercare risposte. Vertiginoso è riuscire a sostare nell’immediatezza di queste invenzioni, accogliere il depistaggio che tocca la pelle, attiva i neuroni, vibra e tesse imprevedibili alleanze. La vertigine è soglia, è declivio, è vuoto di stomaco.
È una condizione posturale che incrina la perpendicolarità, sbilancia l’assetto individuale e rende torti, mutevoli e mutaforme, nel recupero incessante di equilibri passeggeri. Accogliere la vertigine è organizzare il gesto nel volume sospeso tra provenienza e proiezione, farsi muovere dallo spazio e stare tra le cose. Nella ricerca e nella pratica, la vertigine è, per me, uno stato corporeo imprescindibile e sorprendentemente generativo. Allena la consapevolezza nel suo grado maggiore di fragilità e negoziazione.
- Che potere ha la danza di cambiare l’immaginario e/o di agire il mondo?
Torno all’immagine precedente, alla vertigine intesa come compromissione della perpendicolarità e cito Adriana Cavarero che, nella sua opera Inclinazioni. Critica della rettitudine, descrive la postura inclinata, torta, sbilanciata come la sola in grado di accogliere l’altr*da sé.
Destrutturare la tirannia della verticale, significa rendere possibile la relazione come dimensione autenticamente umana, animale, vegetale, rocciosa…
Ecco che in questa danza delle insenature, delle molteplici estensioni, degli sfilacciamenti, dei magnetismi e delle geometrie mi pare di intravvedere un modo sempre vivo e mutevole di porsi in ascolto, di tessere relazioni, di concatenarsi.
Una possibilità per riconsiderare sempre le forme dell’abitare, meglio ancora del co-abitare.
Osservo e attraverso lo stupore della danza come esercizio inesausto di comportamenti emergenti e generativi e fare, così, esperienza della complessità del vivente.
- Sista nasce da una specifica richiesta da parte di Marta Ciappina e Viola Scaglione, come il tuo sguardo e le tue pratiche si sono insinuate in un rapporto oltre che coreografico, biografico?
Devo ammettere che ho sempre avuto un po’ di resistenza verso la dimensione biografica e la sua trasposizione in coreografia. Forse proprio per il timore di quella ricaduta sul proprio asse a discapito del depistaggio dell’immaginazione e dell’invenzione. Tuttavia l’invito di Marta e Viola è stato irresistibile.
Inoltre, osservato dalla prospettiva della mia indecisione iniziale, mi è parso un invito a attraversare una possibilità, per me inedita, di vertigine creativa.
Sono partita dalle loro parole. Le ho ascoltate a lungo. Dai loro racconti è emersa subito la possibilità di costruire un vocabolario che dell’esperienza individuale ne faceva una deflagrazione.
Sono affiorate scie desideranti, pulsazioni spaziali e temporali, radicamenti e scintille. Materia del ricordo ma anche un po’ cosmica. La complicità e la sorellanza hanno disseminato un crocevia di eventi che, nell’immediatezza del loro dispiegarsi, continuano a fare spazio e a generare visioni. Di questa vitalità ho nutrito il lavoro e la costruzione coreografica.