Flavia Dalila D’Amico: Un attacco In Levare in musica è posizionare l’accento su una nota debole, quel sospiro che ci allevia per un attimo da un continuo battere. In Levare però è anche ribellarsi, levarsi a rumore insieme. Per la tua vocazione e ricerca artistica, ti ritrovi più nella prima o nella seconda definizione?A cosa ti rimanda “In levare”?
Chiara Bersani: Leggo e penso che queste due definizioni non le sento divise ma parte di una stessa storia. Quel sospiro che ci allevia per un attimo da un continuo battere, quell’accentare una nota debole è dove forse mi colloco meglio perché lì, in quel vuoto d’aria, si apre uno spazio. Una crepa rivela un altro luogo. E allora, se sono abbastanza precisa, attenta, vigile, posso innescare l’imprevisto e sapere forse si propagherà.
Non esiste fuoco senza ossigeno, una scintilla soffocata sparisce senza diventare fiamma. Da adulta capisco che il mio fare politica necessità di spazio, che il tempo selvaggio – e meraviglioso – dell’età in cui il sangue mi esplodeva nelle vene è cambiato senza lasciare nostalgia. Prima era tutto indomabile e allora andava bene urlare tra folla e non importava se la voce fosse o meno udibile, il punto era urlare, liberarsi delle parole che mi pulsavano nel petto, diventare bandiera immediata.
Ora sento che le energie sono diverse, forse meno o forse semplicemente inizio a sentire che sarà meno il tempo e quindi va usato con più precisione.
E allora prima desidero spazio, qualsiasi spazio, e poi quando so che il minimo indispensabile l’ho ottenuto, allora arriva il rumore.
Il levarsi a bandiera.
Il moto ribelle.
FVD: Il sottobosco è un micromondo (rispetto a quello sovrastante del bosco), pulsante di una vita che richiede di affinare i sensi per essere percepita. Da cosa o da chi è abitato il tuo sottobosco e quali accortezze dovremmo avere per entrarvi in contatto?
Chiara Bersani: C’è un primissimo testo che avevo scritto per il mio Sottobosco, quando nemmeno ero sicura di stare creando uno spettacolo, in cui tutto il mio ribollire aveva dato vita a un’immagine che ancora oggi mi suona come una seducente e spaventosa possibilità abbandonata.
Era il tempo in cui arrivarono i primi vaccini per il covid e nella follia gestionale del momento veniva indicato l’Ordine degli Avvocati di Firenze come prioritario rispetto ad altre categorie per la ricezione del vaccino. Era il tempo in cui per il dolore e la rabbia mi mordevo le labbra fino a farle sanguinare e solo il sapore di ferro in bocca calmava uno sguardo animale.
Ecco, a quel tempo immaginavo un bosco in cui tutte le persone vulnerabili erano fuggite. Fuggivamo perché il sistema sociale, tanto importante per la nostra sopravvivenza, stava collassando e tutto assomigliava alla legge del più forte. E allora, se questo era il destino, preferivo immaginare che avremmo tentato una ricostruzione altrove piuttosto che lasciarci sparire qui.
Ogni tanto mi spingevo a sognare oltre l’impulso alla fuga e immaginavo questo bosco in cui avremmo abitato solo il suolo, in cui forse avremmo scoperto i primi strati del sottosuolo, in cui saremmo diventati maestri di cura reciproca e un giorno qualcuno che ci avrebbe raggiunto e chiesto di prenderci cura di degli altri, di chi era rimasto. Arrivata a quel punto della fantasia la rabbia era già più quieta, la vendetta fortunatamente non era presente e allora scrivevo:
No, non c’è più alleanza tra noi, non c’è conforto, ma se ti arrendi mi posso prendere cura di te.
Perché le ferite sono un fatto, le fratture sono un evento concreto e noi che non abbiamo nemmeno una priorità vaccinale non ti confortiamo ma ti curiamo.
Tu però ti devi adagiare.
Devi lasciare le tue armi accettando di non sapere dove sono le nostre.
Tu ci devi avvicinare perché noi abbiamo imparato a stare senza di te.
Se vuoi possiamo partire dalla cura dei corpi e poi sperare che qualcosa germogli.
Poi la tempesta si placata, sono arrivate le riflessioni e il lavoro, la ricerca e la quiete, le immagini dello spettacolo e gli incontri che hanno curato il cuore e addolcito gli occhi, ma una frase di quel testo furente vorrei sopravvivesse e arrivasse a chi decide di avvicinarsi:
Tu, però, ti devi adagiare.