Flavia Dalila D’Amico: Un attacco In Levare in musica è posizionare l’accento su una nota debole, quel sospiro che ci allevia per un attimo da un continuo battere. In Levare però è anche ribellarsi, levarsi a rumore insieme. Per vostra vocazione e ricerca artistica, vi ritrovate più nella prima o nella seconda definizione? A cosa vi rimanda “In levare”?
Michele Abbondanza, Antonella Bertoni: Crediamo che le due definizioni possano essere equivalenti. L’una non può esistere senza l’altra e sembra rimandino al continuo flusso dell’esistere: lo storico “Panta rei”. Cosa c’è di più pertinente e vicino al “gesto”?… Che dopo un attimo è già scomparso. Per sempre.
FVD: Viro è un personaggio autocompiaciuto e depresso, dite. Quanto ci dice del presente questa figura mitologica e come la partitura fisica incorpora queste ambivalenze?
Michele Abbondanza, Antonella Bertoni: Viro è un’indagine in forma coreografica dell’uomo contemporaneo. Non ha la pretesa di rivelare nulla di quanto non sia già presente nella nostra cultura. Dall’opera emergono elementi e dettagli in cui lo spettatore si riconoscerà, o non si riconoscerà, tessendo una sua drammaturgia.
E’ nel presente che creiamo e dal presente che attingiamo: Uno “spettacolo dal vivo” o è vivo o non è. I due vivi di Viro vanno a mille: hanno infatti infinità di vite da contenere in un’ora di tempo, fondamentalmente per nascondere la loro implosiva immobilità.
Per questo il nostro “Viro” non è un eroe, né un antieroe: ci sussurra dello stato dell’arte dell’uomo di oggi che galleggia nell’inerzia, nella mancanza di un orizzonte di senso, incerto della sua identità presente, qui rappresentato da due straordinari danzatori, che sarebbero potuti diventare 10, 50, 100…
La partitura, dietro all’apparente semplicità del gesto e alle sue banali ripetizioni, non lascia ai personaggi né scampo, né libertà; non tanto dal punto di vista virtuosistico, dinamico-aerobico o emotivo, ma da quello della precisione, della coordinazione e dell’attenzione che dal primo all’ultimo battito musicale, deve essere in loro costante, per non perdersi.
Che Viro sia forse, essendo la coreografia di mano femminile, la messa in atto di una dolcissima e puntuta rivalsa? O forse, nel mostrarci un uomo vago e insicuro, non ci sia il grido disperato, il desiderio di un auspicato punto d’incontro, vero, profondo, che possa suggerire negli occhi di chi guarda (maschili o femminili) nuovi e ancorché utopici paesaggi?